Mental è una serie tv andata in onda sulla piattaforma RaiPlay qualche anno fa che per prima ha affrontato il tema del disagio psichico tra adolescenti, raccontandolo attraverso le storie intrecciate di quattro giovani che si incontrano durante il rispettivo ricovero nel reparto di psichiatria. Gli episodi contengono in sé elementi molto interessanti che, presi singolarmente, al di là dell’adattamento cinematografico, racchiudono a mio parere il paradosso attuale che vive l’adolescente: un’ambivalenza di fondo che gli impone di navigare tra le aspettative di un ambiente che non lo vuole noioso e la sua richiesta di essere semplicemente amato. “Nessuno vuole essere normale”, recita Nico, una delle protagoniste, ricordando a se stessa e al mondo che i giovani come lei preferiscono far schifo pur di provare ad altri che non sono noiosi ma speciali, interessanti, sensibili e profondi.
Alle aspettative dell’ambiente sembra che il giovane ultimamente reagisca facendo proprio un linguaggio che per tanto tempo era riservato a chi frequentava gli studi di psicoterapia. Sempre più spesso infatti impara termini psicologici scorrendo le “card” di Instagram che recitano “Segnali per capire se lui/lei è narcisista”, “Relazione tossica, come riconoscerla”, “Ecco come le tue emozioni cambiano il tuo corpo”, “Piccola guida per capire la depressione”, oppure apprende diagnosi psichiatriche compilando test di personalità come quello di Winnie the Pooh che sta nuovamente comparendo su Tiktok.
Ma l’acquisizione di tale linguaggio sostiene davvero l’adolescente, oppure amplifica l’ambivalenza di cui si parlava, trasformando la sua generazione da ribelle a cristallizzata?
I dati che evidenziano questa tendenza sono allarmanti: sempre più suicidi tra i giovani e sempre più stress emotivo. Forse allora dovremmo capire in che modo posizionarci per far sì che l’accessibilità a questo tipo di sapere sia costruttiva per i nostri giovani. Il dato oggettivo infatti è che il ragazzo, davanti ai contenuti che compaiono sui social media, si ferma e li apprende forse perché lo aiutano a categorizzare un mondo caotico privo di confini e limiti. A questo punto gli adulti dovrebbero armarsi per diffondere contenuti di qualità e per aiutare l’adolescente a sostare nell’inquietudine dell’incertezza, ricordando che l’accessibilità a una conoscenza non ne presuppone il sapere.
Se l’adolescente si convince di essere narcisista o di avere un disturbo da deficit dell’attenzione perché compilando il test è risultato assomigliare a Winnie The Pooh, il suo sé, come spiega Winnicott, rifletterà l’adattamento compiacente alle richieste dell’ambiente, in questo caso a una diagnosi, a scapito in primo luogo dell’autenticità e del suo vero sé. Si sentirà sì più sensibile, speciale e interessante, ma allo stesso tempo anche profondamente spaventato.
Nuovamente all’adulto è richiesto di esserci per non prendere troppo sul serio i grandi termini chiarificatori. Ed Esopo ci viene in aiuto con una favoletta a dir poco profetica. Lo scrittore greco raccontò infatti di un millepiedi che camminava disinvolto per le sue terre finché una formica curiosa gli chiese come riuscisse a camminare così bene con tutte quelle zampe. La domanda turbò così tanto il millepiedi da impedirgli di continuare a camminare.
Insomma, è necessario lasciare ai giovani la possibilità di sperimentarsi e definirsi anche attraverso una terminologia psicologica, ma penso sia altrettanto importante problematizzarla e sdrammatizzarla, per far sì che gli adolescenti non si immobilizzino come il millepiedi, tra diagnosi e domande. Forse li dovremmo solamente amare come esseri banali e inquieti che hanno bisogno di adulti e non di fare gli adulti. Perché la verità, racconta di nuovo Nico, è che “sono i soliti adolescenti dall’ascella sudata, dal pianto facile e le unghie per pranzo. Tipo me.”