Si celebra ogni anno la settimana dedicata alla Salute Mentale, che anche in questo 2023 ha visto il fiorire di tutta una serie di eventi: conferenze, convegni, seminari, rappresentazioni teatrali… Ho seguito alcune di queste iniziative e, nonostante l’ottimo livello, c’è stato qualcosa che mi ha lasciato insoddisfatto. Riflettendo, ho capito che tale senso di insoddisfazione derivava da uno sguardo rivolto più al passato che al futuro.
Certo, non dobbiamo dimenticare la tragedia dell’istituzione e della cultura manicomiale, la segregazione di tante esistenze strappate alla vita sociale, lo stigma della malattia mentale che spingeva a sottrarre allo sguardo della comunità chi ne era colpito. Il manicomio era una cittadella isolata e autosufficiente, fatta non solo per cercare di curare, ma per controllare, separare e allontanare: poteva accogliere centinaia, migliaia di pazienti, i quali, in anni di permanenza, si cronicizzavano senza speranza di futuro.
Se tutto questo non va dimenticato, oggi siamo tuttavia, e fortunatamente, in un’altra stagione, davanti ad altri problemi e ad altre sfide. Se c’è qualcosa da rimpiangere degli anni caldi della cosiddetta “legge Basaglia” è l’appassionato dibattito intorno alla malattia mentale e alla sua cura, che ha coinvolto psichiatri, psicologi, sociologi, filosofi di diversa formazione, contribuendo, non senza duri confronti ideologici, all’affermarsi di una nuova considerazione del disagio psichico. Sicuramente vi sono concetti ormai acquisiti: la cura del paziente psichiatrico deve avvenire senza recidere i legami con il suo ambiente di vita e nel quadro di un progetto che preveda anche l’intervento riabilitativo; l’assistenza non può ledere la dignità della persona che, nonostante la sua sofferenza, continua a essere membro della società con tutti i diritti che ne derivano.
Non possiamo che rallegrarcene, tuttavia quel fervore di discussione prima ricordato lo vedo spento. Quale futuro vogliamo immaginare?
Servizi e strutture di cui disponiamo sono insufficienti rispetto alla popolazione affetta da disagio psichico, che le statistiche rilevano in costante aumento, ma anche la loro qualità si dimostra spesso inadeguata. Il modello che prevede comunità terapeutica e alloggi protetti sembra ormai acquisito, ma l’organizzazione di tali strutture risente ancora, in alcuni casi, di un residuo di cultura manicomiale, evidente nell’ubicazione opportunamente isolata o periferica, nell’utilizzo di personale in veste infermieristica piuttosto che educativo-riabilitativa. Anche i Centri Diurni vengono concepiti più come spazi di intrattenimento che in funzione di interventi di inserimento sociale.
Nello stesso tempo i ricoveri in caso di acuzie hanno limiti temporali adatti esclusivamente a un intervento farmacologico inteso alla soppressione dei sintomi, non permettono al paziente di vivere la crisi, di ascoltarsi e di trovare ascolto. A questo proposito, credo sarebbe opportuno dotare il Servizio Psichiatrico di centri crisi, nei quali tempi di degenza elastici, misurati su bisogni diversi, possano offrire spazio al dispiegarsi del disagio e alla sua comprensione.
Il disagio psichico non può essere equiparato a una malattia fisica. Quest’ultima presenta sintomi che vengono indagati e misurati da una sofisticata tecnologia medica, così da giungere a una diagnosi certa e a una terapia secondo protocolli collaudati. Nel nostro caso, invece, protocolli e procedure omologanti non funzionano.
È sempre necessario partire dalla relazione terapeuta-paziente per procedere alla scelta più idonea per quel paziente e per quel momento, nel quadro di un progetto complessivo che, prevedendo fasi diverse, si proietti nel futuro.
Il ricordo di un passato drammatico non deve distogliere l’attenzione dalle criticità del presente.
Quali interventi terapeutici, quali forme di assistenza, quali strategie riabilitative? Questi temi dovrebbero coinvolgere tutti gli operatori del settore in un serio dibattito per giungere a delineare un Servizio Psichiatrico capace di affrontare le sfide del futuro.