L’elegante e avvenente quarantenne seduta davanti a me aveva parlato per quasi un’ora, con aria svagata da donna di mondo, della sua famiglia d’origine, dei suoi studi, della sua carriera, del marito e dei figli…..A questo punto la interruppi: “Quali sono le sue aspettative? Che cosa la induce ad iniziare una psicoterapia?” Senza esitare: “La curiosità”.
Confesso che ci sono rimasto male. La banalizzazione del lavoro terapeutico mi ha urtato. Più tardi l’irritazione ha lasciato il posto a molte domande e ad alcune riflessioni.
Chi va dallo psicologo o dallo psicoterapeuta? E perché ci va?
Le ragioni sono molto cambiate nel tempo così come cambiata è la percezione di queste figure professionali. Si è passati dal rifiuto di prendere atto del proprio disagio (“non vado dallo psicologo perché non sono matto”) a fatto elitario (andare in analisi diventa una scelta culturale obbligata per molti intellettuali) a fenomeno diffuso, il che spiega l’aumento esponenziale dei professionisti del settore.
Ho avuto talvolta la sensazione che alcuni aspiranti pazienti venissero da me come si va dalla chiromante o dallo stregone, o come, in passato, si andava a parlare, e a sparlare, dal parrucchiere e dal barbiere. Adesso che ho accumulato esperienza e fatto carriera, mi posso permettere di essere selettivo. Accetto solo pazienti con cui intuisco la possibilità di stabilire transfert e controtransfert soddisfacenti, che permettano un investimento emotivo.
Non si vogliono certo negare o sottovalutare la sofferenza e il disagio psichico che richiedono un serio intervento terapeutico, spesso un insieme sinergico di cure, farmaci, sostegno psicologico, assistenza, intendo riferirmi a coloro i quali si rivolgono al medico dell’anima per trovare conforto a frustrazioni e dolori un tempo oggetto di confessioni amicali. Una delusione amorosa, un’umiliazione subita, un insuccesso negli studi, conflitti familiari, difficoltà professionali, tristezze esistenziali trovavano nell’amico l’interlocutore più adatto e comprensivo, pronto ad accogliere tutte le confidenze, anche le più intime, e ad offrire consolazione e sostegno. Il dialogo con tale figura agiva il ruolo liberatorio di una seduta terapeutica e salvifico di una confessione.
Il periodo storico che stiamo vivendo mi sembra povero di amici in carne e ossa, sostituiti dalle figure virtuali dei social, con le quali si possono sì mettere foto in comune e scambiare infiniti messaggi, le cui parole, però, hanno spesso un suono vuoto. Si aggiunga la scarsa capacità di sopportare la frustrazione per cui ogni smacco diventa un dramma.
In quel deserto di relazioni umane che si trovano ad attraversare, molti sono disposti a pagare per avere qualcuno che li ascolti. Vogliono avere uno spazio dove poter dire di sé e sentirsi confermati nelle proprie ragioni e interpretazioni dall’autorità di un professionista della psiche.
E qui, ahimè, vanno incontro alla prima delusione. Il terapeuta non conferma né consiglia. Si limita a far loro da specchio. E aspetta. Aspetta che il suo paziente compia il passo successivo, il salto di qualità verso il vero obiettivo di qualsiasi intervento di natura psicologica: acquisire maggiore consapevolezza di sé, della propria interiorità, delle proprie motivazioni profonde.
Quanti riescono a farlo questo passo? Alcuni, altri abbandonano delusi perché non ce la fanno a mettersi in discussione, a guardarsi dentro, diverse sono le loro esigenze. Cercano approvazione, conferme, complicità. Ma anche costoro, se l’esperienza non li aiuta a maturare, qualche utile lo traggono comunque: hanno a disposizione una persona reale con cui parlare e possono illudersi di aver trovato un amico.
Ma allora – a questo punto qualcuno chiederà – ci dica lei qual è il giusto modo di affrontare una psicoterapia.
Se escludiamo le patologie psichiatriche gravi che meritano altro discorso, la prima cosa da imparare è che quello della psicoterapia è un tempo lento, nel quale si svolge un lavoro impegnativo che prosegue oltre le sedute, fuori dal setting terapeutico, un tempo sospeso, dedicato alla riflessione, durante il quale è bene non prendere decisioni e congelare l’agire.
Lo spazio dell’analisi è il luogo dove esplorare le emozioni, un fiume carsico che scorre sotto la superficie del mondo razionale delle persone, spesso contraddittorie e difficili da affrontare.
E’ anche il luogo dove capire le motivazioni profonde delle azioni e prendere atto che ciascuno di noi, al di là di ciò che desidera, fantastica, sogna, immaginava o sperava di essere, è quello che fa, che riesce a realizzare, ovvero riconoscere i propri limiti.
Infine il lavoro terapeutico è una guida alla scoperta del lato oscuro, del fondo di mistero che ognuno gelosamente custodisce. Il segreto rimarrà tale, ma lo scandaglio gettato farà da stimolo a porsi gli interrogativi che danno senso alla vita e che ci accompagneranno, oltre l’analisi, in un viaggio che non si conclude.