A volte accade di rileggere cose lette in passato, magari dei tempi della scuola, di quando leggere magari era legato al senso del dovere, alla paura delle interrogazioni, a tutte quelle preoccupazioni che a quindici anni è quasi d’obbligo farsi. Ma a frequentare gli stessi posti a distanza di anni si scopre che si riescono a vedere altre cose.
Il mito della caverna di Platone, per esempio: tutte quelle persone incatenate a guardare le ombre proiettate sulla parete di fronte a loro, fisse e immobilizzate, concentrate a guardare solo il simulacro della verità. Certo, Platone ci dice che alla verità si può giungere per fede e – se ci pensiamo – non è un caso che l’anello che gli sposi portano al dito si chiama “fede”, oppure “vera”, a ricordarci la dottrina platonica della verità.
Il passaggio però che mi colpisce ora, con l’età che porto, è quello in cui Platone ci dice che lo schiavo incatenato può voltarsi per vedere finalmente il fuoco e dunque guardare in faccia la verità ma – ecco quello che arriva diretto come un proiettile – l’atto di voltarsi per guardare la verità lo chiama “rivoluzione” e, fin da subito, ci dice che è un atto che viene impedito dal dolore.
Dunque, nella vita possiamo stare con la posizione che ci viene assegnata: “guarda dritto”, “guarda a sinistra”, “guarda a destra” ma se cerchiamo di divincolarci dalla catena, quindi di fare “rivoluzione”, ecco che proviamo dolore.
Mi sembra che la pagina platonica vada ancora più in profondità, suggerendoci che la percezione stessa della catena e del vincolo compare solo se voltiamo lo sguardo dalla direzione assegnata, se appunto facciamo rivoluzione.
Non posso non sentirmi colpito da queste parole, non posso che connettermi, facendo un salto spaziotemporale inaudito, arrivando alla dimensione autentica che ci suggerisce Heidegger come uscita dal mondo in cui “ognuno è gli altri, e nessuno è se stesso”, a conferma che la ricerca di un senso della nostra esistenza non è cosa del diciannovesimo secolo ma è una partita antica, è la ricerca di sempre.
Che poi la questione della rivoluzione ci serva come chiave esistenziale o molto più umanamente per saper sopravvivere nel mondo della disinformazione sta a ciascuno di noi comprenderlo.
2 commenti
edoardo fabbri
“è la partita di sempre” Proprio oggi riflettevo con una amica come la posizione economica (di cui la lettura di Braverman “Capitale Monopolistico” ci regala un fantastico viaggio nel tempo) sia così vincolante per trovare la capacità di voltarsi…alcuni possono voltarsi nonostante tutto sostenendo l’illusione del “self Made man” ma le masse ormai non si voltano più. Arroganza, autoritarismo, potere, egoismo, plasmano e impongono il senso del quotidiano. Della vita. La coscienza individuale è orientata “nessuno è se stesso”. Grazie Massimo per l’occasione. Si, lo riconosco, sono più sbilanciato verso Karl piuttosto che verso Sigmud…
Massimo Buratti
Caro amico, non posso che trovarmi d’accordo con te, l’attualità del concetto di rivoluzione come essere disposti a pagare il prezzo doloroso del volgere lo sguardo in altre direzioni, è davvero dirompente, soprattutto se pensiamo a quello che Byung Chul Han chiama il “dominio dell’uguale”, ovvero ad un main stream che decide a priori quali debbono essere le linee di pensiero, espellendo di fatto l’alterità. a tal proposito ti rimando alla lettura de “L’espulsione dell’Altro” del medesimo autore. una abbraccio caro