Nessun movente. Questa la prima conclusione a cui sembrano essere arrivati gli inquirenti per la terribile uccisione di Sharon Verzeni da parte di Moussa Sangare. «L’ho vista e l’ho uccisa», ha detto, «non so spiegare perché sia successo». Nessuna spiegazione, quindi, il che rende ancor più assurda la violenta scomparsa della ragazza di trentuno anni, in un paesino in provincia di Bergamo.
Eppure, a ben guardare quel che emerge dalle ricostruzioni giornalistiche – seppur con le dovute cautele, necessarie nell’analizzare un caso a distanza – sembra di leggere una storia che trae origine da un nucleo centrale: le aspirazioni fallite dell’assassino. Voleva avere successo nella musica, ha avuto delle esperienze, ha tentato l’ingresso a X Factor. La svolta è lì, a portata di mano, ma non si avvera. Gli sfugge.
Lui non ce la fa, i suoi compagni vanno avanti, alcuni hanno successo, il successo vero: le persone che frequentava, sì, loro sì che vivono quella svolta, ma lui resta tagliato fuori. Ha provato ad avvicinarsi a quel mondo e non ce l’ha fatta, quel che gli resta è il bisogno del successo.
Ecco che allora, nella sua mente di assiduo frequentatore dei social, inizia a delinearsi un pensiero. L’obiettivo è il successo, l’obiettivo è apparire, non importa il valore o il disvalore di quel che faccio, così come sui social non importa se ad apparire sia il volto o il didietro di qualcuno, l’importante è esserci. A ogni costo. Per questo serve un’azione clamorosa, che resti impressa, che non si dimentichi.
Da quel che sappiamo, le prime azioni violente sono state rivolte alla sorella e alla madre, che lo avevano denunciato per ben tre volte e lo avevano mandato via di casa. Quella violenza non è bastata, non è arrivato nessun successo in quel modo. Allora si allena, col coltello e una sagoma di cartone, finché quel gesto diventa più familiare, finché non crea più alcun conflitto.
La sera dell’omicidio incontra due ragazzini, ma non sono loro. Quando incontra la ragazza in lui scatta qualcosa: è indifesa, certo, ma inoltre ascolta la musica, condivide il suo mondo. Ecco che, come dice lui, ha sentito un «feeling». E prima di ucciderla le chiede scusa, «Scusa per quello che sta per succedere», «Scusa», come il titolo della canzone del 2016 incisa con il rapper Izi.
Viene da chiedersi se non abbia fatto qualcosa per essere scoperto, perché in quel caso avrebbe dovuto uccidere qualcun altro, compiere un gesto ancora più clamoroso, alzare l’asticella…
Leggendo i giornali, guardando gli articoli che raccontano questa vicenda, vediamo che l’assassino viene sempre rappresentato con le cuffie e il microfono, o mentre sta cantando. Lui, in questo modo, ha reso famoso il cantante, che ha addirittura battuto l’assassino! In qualche modo, quest’uomo, ha creato il successo del cantante, ha reso finalmente famoso e noto a tutti il cantante. È lui che è sulle prime pagine dei giornali, costi quel che costi. Non solo: viene da pensare che, in qualche modo, essere scoperto come autore dell’omicidio era funzionale al raggiungimento del “successo del cantante”, altrimenti, drammaticamente, avrebbe dovuto agire, ancora. E, spingendoci sempre più oltre, anche il fatto che abbia voluto tenere con sé il coltello («come ricordo») fa pensare a un oggetto simbolico, come fosse il suo microfono, da conservare.
Seguire questa linea di pensiero, srotolare la matassa della sua mente, ci fa riflettere su una questione fondamentale: se quest’uomo fosse stato seguito, se questa matassa fosse stata guardata prima, forse questi elementi avrebbero potuto essere portati alla luce, svelati e compresi. Il suo è un cammino patologico che sarebbe stato necessario seguire: si sapeva che era una mina vagante, ma nonostante ciò è stato lasciato libero di agire i suoi demoni. E lo ha fatto.
2 commenti
Enrico
Dopo avere letto questa agghiacciante (almeno per il sottoscritto) ma purtroppo convincente ricostruzione di ciò che ha condotto al delitto, e il commento conclusivo (“si sapeva che era una mina vagante, ma nonostante ciò è stato lasciato libero di agire i suoi demoni”) si è indotti a chiedersi se il problema non risieda proprio in una dinamica sociale (non solo in Italia) che ha ridotto le polimorfe motivazioni del lavoro (compreso il piacere di realizzare un risultato) all’esclusiva motivazione del proprio percorso di carriera. Per paradosso, ma solo fino a un certo punto, si potrebbe dire che la logica che ha guidato il percorso di Moussa Sangare non è poi così diversa da quella di un Emanuele Macron o di una Orsola von del Leyen, cioè di due importanti modelli di comportamento portati quotidianamente a esempio perchlé “vincenti”; non però in relazione a qualche obiettivo di interesse collettivo da raggiungere, ma rispetto ai loro attuali o potenziali “concorrenti”: che tipo umano produce una selezione di questo genere?
Giuliana Torre
A mio modo di vedere, la differenza sta nel fatto che alla base non c’è il carrierismo ma la ricerca di una rivincita. Qui la vittima non è vittima di sopraffazione ma diventa compolice di un progetto di realizzazione perverso.