C’era una volta Medea, e ci sono ancora le sue sorelle, madri che uccidono i propri figli. Per vendetta contro il partner che vogliono colpire in ciò che ha di più caro, come la mitica eroina, ma anche per altre ragioni, ampiamente indagate dalla psicopatologia e dalla criminologia. Perché si sentono inadeguate al ruolo di madri, incapaci di crescere i figli e di proteggerli dal mondo “cattivo”; perché, prede della depressione, portano con sé i figli nella morte per sottrarli al dolore di vivere; perché vedono in un figlio indesiderato un ostacolo alla propria realizzazione.
Ma quando il figlicidio è opera del padre vi è una sola motivazione a prevalere: la punizione della donna infedele e la vendetta trasversale, espressione di sentimenti arcaici che millenni di cultura non sono riusciti a estinguere.
Lo esemplifica in modo emblematico l’ultimo, atroce fatto di cronaca: il padre che nel Lecchese ha ucciso, soffocandoli, i figli gemelli, per poi suicidarsi lanciandosi da un ponte.
Ed ecco che subito si evoca la follia, come sempre di fronte a ciò di cui non sappiamo darci spiegazione.
La follia rassicura perché pone distanza tra lui e noi, lo colloca in una dimensione che non ci appartiene, ne fa un essere alieno.
E invece no, questo padre non è un pazzo né un individuo preda di un raptus improvviso. È un uomo che meticolosamente premedita il crimine e lo metterà in scena con una attenta regia teatrale. Nel frattempo si prepara e come un attore consumato mente alla moglie, mente a familiari e amici, mente all’avvocato: non lascia trapelare aggressività, rancore, odio, non fa scenate, accredita la sua immagine di persona corretta, equilibrata, sollecita dell’avvenire dei figli.
Coltiva nel silenzio la sua rabbia.
Descritto come un uomo tranquillo, preciso, ossessivamente amante dell’ordine, nel momento in cui la richiesta di separazione della moglie mette in crisi l’ingranaggio perfetto della sua quotidianità, l’intero edificio della sua esistenza frana come un castello di carte e lui si trasforma in un dio giustiziere che stringe i figli in un abbraccio mortale.
La brutale freddezza dell’ultimo messaggio lasciato alla moglie – «Ora resterai da sola» – rivela l’abisso di vuoto nel compiere un atto tanto feroce: condannare la madre dei suoi figli alla solitudine e ai sensi di colpa. Sì, perché quelle parole, quasi un grido di trionfo, sottendono il rifiuto di qualsiasi responsabilità personale in un’azione che diviene conseguenza, sola e inevitabile, delle scelte della donna, sadicamente consegnata a una sofferenza senza fine.
Ciò che lascia sgomenti è proprio la sproporzione tra l’efferatezza del crimine e la meschinità dell’obiettivo: non c’è amore, per quanto patologico, come in alcuni casi di figlicidi materni in cui agisce un distorto desiderio di protezione; i figli sono solo il mezzo con cui colpire la sposa fedifraga, che ha osato spezzare l’ordine di quel suo piccolo mondo domestico laboriosamente costruito.
Mi accorgo tuttavia che questa ricostruzione lascia interrogativi angosciosi, non soddisfa completamente nemmeno me, che pure l’ho formulata con convinzione sulla base degli elementi resi noti.
Al di là di diagnosi che tendono a omologare, per capire veramente una persona bisogna conoscerne la storia, come ben sanno coloro che si occupano di disagio psichico. Solo la storia individuale caratterizza in modo unico ciascuno di noi, dice chi siamo, illumina anche quel lato oscuro di cui siamo, senza saperlo, portatori. Ciò è tanto vero che in questo compito ci aiuta più la grande letteratura, con la sua finezza di analisi, che qualsiasi manuale diagnostico.
In mancanza di un percorso di analisi personale, davanti a un evento così eccessivo da valicare i confini dell’umano, si intuisce un abisso di mistero che sfugge a ogni indagine razionale.