4 settembre 2016. Dopo un sonno agitato mi sveglio con un dolore lancinante alle mascelle, come se tutti i denti avessero preso a muoversi. In un lampo mi vengono alla mente le parole di mia madre che interpretava il sogno della caduta dei denti come annuncio di sventura.
Resisto stoicamente, ma il dolore aumenta, il dentista diventa inevitabile.
Il dottor Zacco Pancali effettua accurata ispezione a tutti i miei 44 denti, mi sottopone a ripetute radiografie, ma deve constatare, seppure a malincuore, che la mia dentatura è perfettamente sana.
Il fastidio tuttavia permane: mangio solo pappine e assumo antidolorifici sempre più potenti.
Dopo ulteriori, inutili indagini, capisco che con quel dolore devo conviverci.
Quante volte avevo esortato i miei pazienti ad abituarsi a convivere con il loro disagio psichico. Era venuto il mio turno a farne la prova, questa volta con un malessere fisico.
Passano sei mesi e inizio ad avvertire disturbi allo stomaco: in progressione si manifestano aerofagia, difficoltà di deglutizione accompagnata da emissione di suoni simili al tubare di colombi.
Una mattina, mentre sono impegnato in una gara di flessioni con mio figlio, mia sorella, che ci osserva, lancia un grido indicando una montagnola di muscolatura disegnatasi sul ventre, come se il mio corpo avesse subito una trasformazione.
Inizia a tormentarmi il ricordo di un racconto di Buzzati, Il fischio al naso, il cui protagonista, ricoveratosi per eliminare un tic fastidioso, precipita in un girone infernale dove, di sintomo in sintomo, viene lentamente condotto alla morte.
Passano gli anni: i denti trovano un nuovo assestamento, così la muscolatura addominale.
All’inizio dell’estate ecco prodursi una vistosa irritazione pruriginosa sotto l’ascella sinistra. Allergia? Solo a sinistra?
Consulto una serie di dermatologi. Ognuno ha la sua pomata miracolosa da prescrivermi. Mi ungo continuamente. Risultati nulli.
Ritornano insistenti le immagini di uno smarrito Ugo Tognazzi nella riduzione cinematografica del racconto di Buzzati.
Cerco di individuare il filo rosso che unisce tutti questi disturbi, ciò che li accomuna: arrivano senza preavviso, sembrano insopportabili, poi subiscono un assestamento.
E tutto era incominciato in quella lontana mattina di settembre del 2016.
Cosa era successo allora? Cercavo la scena primaria.
E improvvisamente la soluzione si è fatta strada, emergendo dalle profondità del subconscio: proprio in quel periodo avevo iniziato a suonare il sassofono.
Non c’era disturbo che non conducesse a lui: il bocchino costringe a un adattamento l’arcata dentale; l’emissione del suono richiama aria dal diaframma e indurisce i muscoli addominali; il braccio sinistro stringe lo strumento, lasciando il destro libero di azionare i tasti, e, con il sudore, può produrre irritazione. Lo strumento si era gradualmente impadronito del mio corpo.
Ho capito che quella del sax è una dura disciplina, che il piacere di suonarlo comporta un prezzo da pagare: è uno strumento che davvero entra nel corpo, ne diventa una protesi e impone la sua legge.