Nel 1919 un Franz Kafka trentaseienne scriveva una famosa ”Lettera al padre”, violento atto d’accusa nei confronti del genitore. Non è difficile capire che in realtà quella incombente e inquietante figura di padre egli la porta dentro di sé, materializzazione di un Super Io potente e sadico.
La sua lettura mi ha indotto a riflettere sul tipo di figura paterna da me interpretato. A seguito di un esame di coscienza severo e dopo un’analisi accurata (e sofferta), sono in grado di affermare in piena coscienza che sì, posso aver commesso errori, ma non assomiglio a quel terribile genitore e che non corro pericolo di vedermi recapitare da mio figlio una simile missiva.
Rincuorato da queste conclusioni, mi piacerebbe scrivere una lettera “al figlio”, certo non così lunga e importante come quella dell’autore ceco (io non sono Kafka), una lettera agile, per la quale non sceglierei un registro solenne o serioso, ma un tono leggero con qualche licenza dissacrante. Immagino suonerebbe pressappoco così:
Caro figlio,
so che mi farai fuori (spero solo metaforicamente): me lo assicura Sigmund, maestro di tutti noi. Da quando ho letto Freud aspetto rassegnato il momento di incontrare il mio Edipo vendicativo. So che si tratta di un passaggio per me doloroso, ma inevitabile per la conquista della tua indipendenza e della tua autonomia.
Accanto alla figura del tragico re di Tebe la saggezza antica ci propone però anche altre figure mitiche di figli: Telemaco che si fa uomo nel ricordo e nell’attesa del padre (però io sono stato sempre presente e non mi sono divertito come Ulisse); Enea, ritratto da Bernini nell’atto di portare il vecchio padre sulle spalle. Il gruppo marmoreo sintetizza mirabilmente il passaggio generazionale: l’eroe, nel fiore degli anni, forte di tutta la sua virilità, fugge da Troia in fiamme reggendo sul dorso un Anchise vegliardo, mentre a lui si aggrappa il figlio Ascanio, tenero fanciullo bisognoso delle cure paterne. Eppure, quel vecchio ora così debole è stato un nobile principe, è stato un forte guerriero, è stato un giorno un eroe amato da Venere!
Ecco, figlio mio, vorrei che anche tu, dopo aver agito il ruolo di Edipo, diventassi un po’ Enea, pronto a offrirmi le tue spalle nell’età della vecchiaia e dell’inevitabile decadenza fisica.
Anch’io penso di aver fatto la mia parte: ho ucciso con fatica il genitore per conquistare la mia vita, ma posso identificarmi con Enea nell’avergli offerto sostegno e aver protetto i suoi passi incerti. Ora tocca a te.
Ti auguro (e mi auguro) che tu sappia passare dalla feroce determinazione di Edipo, vincitore della Sfinge, alla pietas di Enea, fondatore di città.
Con affetto
tuo padre