di Pier Luigi Vercesi
Seduto a un tavolino di via Veneto a Roma, avvolto in un paio di cappotti in piena estate per una rara malattia ma soprattutto per paura di ammalarsi, Vincenzo Cardarelli si sentì apostrofare: «Ecco il più grande poeta italiano morente!».
Di quella definizione, rimastagli appiccicata per l’intera vita e anche presso i posteri, doveva ringraziare un geniale piccoletto incapace di rinunciare alla battuta sferzante persino su se stesso, tanto da autodefinirsi «un carciofino sott’odio», vale a dire Leo Longanesi, l’uomo che, per la cronaca, assestò il famoso schiaffo ad Arturo Toscanini, al Teatro Comunale di Bologna, perché si rifiutò di dirigere Giovinezza. A proposito di palcoscenici, il lirico Cardarelli era in ottima compagnia. Tra gli ipocondriaci che calcarono le scene, il più grande fu l’inarrivabile pianista e compositore canadese Glenn Gould: a qualsiasi latitudine, in qualsiasi stagione, in qualsiasi ambiente, vestiva un pesante impermeabile e portava i guanti. Lo ossessionava la paura di essere aggredito dai germi e quindi di ammalarsi. Dicono si portasse da casa persino la sedia, per non esporre il fondoschiena a chissà quale attacco. Osannato dal pubblico, smise di esibirsi nei teatri nel 1964, a 32 anni, limitandosi a registrare in studio. Purché asettico.
Il malato immaginario
Parrebbe una malattia che alberga nel genio, l’ipocondria. Ebbe il suo momento di gloria nel Settecento, quando si emancipò dalla sorella maggiore, la Melanconia, anche grazie al Saggio sulle malattie della mente di Immanuel Kant. Già Ippocrate l’aveva identificata con la bile nera, prodotta dalla milza (che sta negli ipocondri). Più tardi Galeno la battezzò con il suo attuale nome, continuando però a catalogarla tra i tre tipi principali di Melanconia. Ne aveva comunque già fatta di strada, in letteratura, dal 10 febbraio 1673, quando il commediografo francese Molière rappresentò, al Palais-Royal, il suo Malato immaginario. Pare fosse un’opera autobiografica, ma Molière smentì tutti con un colpo di scena: morì sette giorni esatti dopo. Sulla sua tomba avrebbe potuto pretendere l’incisione: «Avete visto che non mi sentivo tanto bene?». Molti scrittori e intellettuali possono essere iscritti nell’albo d’onore degli ipocondriaci, ma la gran parte, per scaramanzia, ha deciso di non trasfondere le turbe nei propri scritti, oppure di mascherarle sotto a un generico mal-de-vivre.
Paranoie di nuova generazione
È il caso di Charles Baudelaire, di Marcel Proust, di Ernest Hemingway, di filosofi come Friedrich Nietzsche e Søren Kierkegaard, o dello scienziato che ci trasformò tutti in scimmie evolute, Charles Darwin, talmente ossessionato dal male fisico da diventare ipocondriaco per conto terzi, vale a dire per i propri figli. Testimoni oculari narrano di aver visto Giorgio Manganelli fuggire dalla tavola di Giulio Einaudi. Lo scrittore era ipocondriaco, l’editore aveva l’abitudine di “peluccare” dal piatto dei suoi autori. Quando si azzardò a farlo con Manganelli, che necessariamente doveva sottoporsi al rito iniziatico, fu la fine di una bella intesa. Giuseppe Berto definì il suo malessere «male oscuro» e ne diede il titolo alla sua opera più nota, un romanzo autobiografico in cui va alla ricerca delle radici della propria sofferenza. Non apriamo il capitolo dell’ipocondria ai tempi di Internet, non basterebbe l’Enciclopedia Treccani per elencare le paranoie di nuova generazione. Giova invece ricordare il più eminente ipocondriaco dei fumetti: Geremia (ovvero Geremia Lettiga), già lustrascarpe, spazzino e venditore di limoni prima di incontrare la Cariatide e il Numero Uno, grande vecchio nelle strisce del Gruppo Tnt. Alan Ford lo descrive come un sessantenne calvo e con un solo dente intento a lamentarsi di dolori immaginari.
Verdone e la rotonda di Ostia
Nel mondo dello spettacolo giganteggiano due ipocondriaci: Michael Jackson ingurgitava dosi massicce di qualsiasi medicinale di cui non necessitava; Barbra Streisand non si è mai messa in viaggio senza il suo medico personale. Due registi-attori come Woody Allen e Carlo Verdone hanno costruito parte del loro successo sulla personale ipocondria interpretandola nei loro film. Nella vita, Verdone raccontò di essere stato curato da uno psicologo che non lo fece mai sdraiare sul lettino ma che lo costrinse ad affrontare la paura per le malattie facendolo passare per la «rotonda di Ostia» ogni volta che doveva andare a trovare la fidanzata. A mali oscuri, oscuri rimedi.
*** questo articolo, gentilmente concessoci dall’autore, è stato originariamente pubblicato sul Corriere Salute