Non vado mai a teatro. Mi correggo, quasi mai.
Al “Parenti”, per assistere a MARJORIE PRIME di Jordan Harrison, ci sono andato solo per dovere di amicizia verso il regista Raphael Tobia Vogel.
Siamo nell’anno 2060: l’Intelligenza Artificiale ha creato i Prime, proiezioni olografiche dalle sembianze umane dotate di memoria. Così una vecchia signora può parlare e condividere ricordi con il marito defunto. Dopo la sua morte un nuovo ologramma che la rappresenta consentirà alla figlia di dialogare e confrontarsi con entrambi i genitori. Infine anche la figlia, morta suicida, sarà sostituita e i tre Prime, resisi indipendenti da presenze umane, continueranno a discutere tra loro senza più reticenze e potranno parlare apertamente di ciò che è sempre stato celato, la morte di un bambino.
Le macchine sembrano in grado di sciogliere i nodi di dinamiche familiari problematiche e di dare finalmente voce all’inespresso.
Non sapendo nulla di Intelligenza Artificiale, ho seguito lo spettacolo con ammirato distacco, ma l’ultima parte mi ha procurato un’autentica commozione e mi ha lasciato una serie di domande.
Il progresso scientifico ribalta il pensiero di Seneca che ci ricorda che moriamo ogni giorno?
L’Intelligenza Artificiale ha sconfitto la morte, regalandoci l’eternità?
Forse solo l’illusione. La storia che recitano i Prime ha infatti valore fino a quando esiste qualcuno con cui condividerne la memoria, poi acquista una realtà autonoma e diventa un racconto mediocre, privo di interesse.
Altre domande sono più inquietanti.
Cosa ha di diverso, o di più, l’uomo rispetto alla macchina? Se le macchine sono in grado di riprodurre le nostre fattezze e di condividere i nostri ricordi, c’è qualcosa che è solo suo?
Ci ho pensato a lungo e la mia risposta è: il segreto. Il segreto che, facendo dell’uomo un essere misterioso a se stesso, gli conferisce fascino.
Forse la migliore rappresentazione del mistero dell’uomo è la persona del matto, un individuo indecifrabile dal pensiero razionale e che per questo spaventa, ma anche affascina, che desta reazioni e sentimenti contraddittori di attrazione e repulsione.
Certo, il segreto è causa di sofferenza e angoscia, è responsabile di oblio e menzogna, ma anche di una faticosa ricerca interiore, di uno sforzo di conoscenza destinato a non esaurirsi perché la verità ultima non si disvela mai tutta.
Invece il buon robot si conosce perfettamente, non può dimenticare, non sa mentire, non nasconde nulla, è privo di segreto: infatti non ha inconscio.