«Hai fatto qualcosa, però non sei un mafioso, non sei uno che ammazza le persone, hai avuto un momento di debolezza, non sei un terrorista. Non sei solo, ci sono altri femminicidi. Però ti devi laureare». Sono recentemente state pubblicate le parole che il padre di Filippo Turetta, assassino di Giulia Cecchettin, gli ha rivolto mesi fa, la prima volta che è andato a trovarlo nel carcere in cui è detenuto.
Si tratta delle parole di un uomo certamente ancora frastornato dalle terribili azioni del figlio, a cui è comprensibilmente crollato il mondo addosso e sono parole dettate dal timore che il figlio potesse compiere un gesto inconsulto. In più, si tratta di una conversazione privata che i media (che hanno mostrato ancora una volta di essere sempre in prima linea quando si tratta di pornografia del dolore) hanno pensato bene di dare in pasto alla popolazione, in un momento in cui l’eco mediatica di questo terribile delitto si è un po’ affievolita, ma questo è un altro discorso.
Senza quindi entrare nel merito e nel voler analizzare il singolo caso, ritengo che siano parole piuttosto significative ed emblematiche di una attitudine odierna all’estremo giustificazionismo dei figli da parte dei genitori. È una tendenza che si nota attualmente non solo in casi eclatanti e terribili come quest’ultimo o altri casi di cronaca che hanno come protagonisti ragazzi o adolescenti, ma anche nella vita di tutti i giorni, per esempio nelle relazioni scolastiche con insegnanti e compagni di classe: se il pargolo prende un voto basso, è colpa dell’insegnante che non ha saputo spiegare; se il tenero virgulto prende in giro un compagno di classe, lo ha solo canzonato, mica picchiato; e via discorrendo: una minimizzazione dopo l’altra.
Le parole del signor Turetta ovviamente fanno molto più effetto perché sono rivolte a una persona che è accusata di omicidio volontario, aggravato da premeditazione, crudeltà, efferatezza, sequestro di persona, occultamento di cadavere e stalking, una persona il cui atto non può essere sminuito sotto nessun aspetto, tali sono la sua gravità e la sua efferatezza, ma sono parole che rendono evidente il grande equivoco che c’è tra il comprendere e il giustificare.
Essere comprensivi non significa giustificare ogni comportamento, sminuendolo o riducendolo a qualcosa di poco conto, di cui magari non si ha la responsabilità, ma vuol dire accettare e accogliere le emozioni del figlio, senza abdicare al ruolo di guida, di adulto che spiega i limiti, i confini, le responsabilità, le conseguenze delle proprie azioni e la possibilità di riparazione, che può aver luogo solo quando ci si è assunti la responsabilità delle proprie condotte.
Giustificare vuol dire legittimare e rinforzare un comportamento anche patologico o illegale, mentre comprendere significa saper mettere dei paletti, dire no, dire che si è sbagliato ma facendo capire dove, come, quando e perché.
Non possiamo sapere se quelle parole il papà di Turetta le stesse rivolgendo al figlio o a un se stesso ancora incredulo e smarrito; da un’intervista fatta al genitore dopo il femminicidio, emergeva come lui avesse del figlio un’immagine assolutamente idealizzata: il figlio «praticamente perfetto», che prendeva sempre buoni voti e che non aveva mai dato problemi in nessun contesto; la moglie si era accorta di quanto soffrisse dopo la fine della relazione con Giulia e gli aveva suggerito di andare da uno psicologo, ma il padre non sapeva dire se ci fosse poi andato oppure no.
Mi sembra interessante come una crepa come questa, che strideva con l’immagine di perfezione tanto decantata, sia stata quasi scotomizzata: come se Filippo fosse stato lasciato da solo con la sua rabbia, il suo risentimento verso la ex ragazza che, diversamente da lui, stava spiccando il volo, con la sua frustrazione e la sua angoscia, senza nessuno che gli chiedesse se poi dallo psicologo ci fosse andato, come si fosse trovato, di cosa avesse parlato, eccetera. Fino quasi a negare le azioni del figlio, in quelle parole pronunciate in carcere: un figlio tanto perfetto non può essere un tale mostro.
Il giustificazionismo a oltranza danneggia tutti, danneggia i figli e coloro che gli stanno intorno, perché toglie un principio fondamentale dell’esistenza umana: il senso della responsabilità personale. Un genitore che giustifica e minimizza gli atti sbagliati di un figlio non gli permette di divenire pienamente consapevole di quanto commesso. Un genitore deve saper dire al figlio, anche nelle piccole cose della vita, che ha sbagliato, che poteva agire diversamente; questo non significa togliere affetto, vicinanza e sostegno nei confronti di chi ha commesso qualcosa di sbagliato, perché è proprio in quei momenti che un figlio ne ha più bisogno. Se i genitori tendono a minimizzare qualsiasi errore dei loro figli, essi lo attenuano, riducendolo a qualcosa di facilmente accettabile. Ma non è così: il peso di un comportamento sbagliato non va ridotto e ridimensionato affinché non gravi sulla coscienza del figlio (e anche su quella del genitore). Lo sbaglio va valutato senza sconti, perché solo in questo modo chi lo ha commesso ne può comprendere fino in fondo le implicazioni per poter iniziare un percorso di rinascita.
I genitori hanno il compito di aiutare i figli a diventare pienamente consapevoli di sé stessi, delle loro azioni e delle conseguenze di queste sugli altri, ma non possono riuscirci se ne giustificano sempre i comportamenti, condannandoli, quindi, a una eterna deresponsabilizzazione.
2 commenti
Stefan Lupo
Le intercettazioni di conversazioni private sono senz’altro deplorevoli. Queste però ci hanno aperto gli occhi su un comportamento, noto, ma inimmaginabile che si spingesse fino a tanto.
Vi è una prassi di molti giornalisti (ma è riflesso della società e della aspettativa di tanti) di chiedere al genitore a cui hanno ucciso il figlio o al marito a cui hanno ucciso la moglie se perdonano l’assassino. E’ una domanda crudele la cui risposta affermativa servirebbe solo a rassenerare alcuni stolti che in questo modo si illuderebbero quasi che il fatto non fosse accaduto.
I rapporti affettivi, anche tra genitori e figli, dovrebbero essere basati, a mio avviso, sulla stima e sulla condivisione dei valori (per lo meno sul rispetto degli altri, della loro vita in generale e delle loro cose) e quando uno dei due commette un delitto non può essere amato come prima. C’è poco da comprendere quando non ci sono valori, sicuramente insegnati ma non recepiti. L’amore che si aveva prima dovrebbe essere congelato in un rimpianto, in una attesa, attiva, che vi sia una rifondazione della persona ed un reale e sincero pentimento.
Maria teresa savuto
Azzeccatissimo e Chiarissimo