Attualità

I “residui” non mancano mai

Il termine “carico residuale”, recentemente utilizzato per indicare i migranti a cui non è concesso lo sbarco dalle navi delle ONG ricorda molto l’espressione “residuo manicomiale”. Erano chiamati così gli ultimi, dimenticati abitatori dei manicomi. I “residui” cambiano un po’ di nome, restano esclusi.

Il recente braccio di ferro tra il Governo e le ONG richiedenti un porto sicuro per lo sbarco dei naufraghi da loro salvati ha riacceso l’attenzione sul problema dei migranti. Problema certo molto complesso e che richiede di essere affrontato – ormai ne sono tutti coscienti – in modo strutturale e non con soluzioni di emergenza. Nel corso di tale vicenda sono state usate parole che mai avremmo pensato di ascoltare e che hanno evocato fantasmi inquietanti. “Selezione”: per indicare la cernita, compiuta da personale sanitario, al fine di individuare le persone a rischio, e quindi da accogliere, rispetto agli individui senza particolari segni di sofferenza a cui lo sbarco veniva negato. “Carico residuale”: a indicare i 36 individui di cui sopra, trattati a parole non come esseri umani, ma come merce avariata, espressione che ha giustamente suscitato reazioni indignate. Tali termini hanno risuonato dentro di me in un modo tutto particolare: per associazione e assonanza mi hanno ricordato “residuo manicomiale”, nome dato agli ultimi, dimenticati inquilini dei manicomi.

L’articolo 180 (comunemente citato come “legge Basaglia”) della legge 833 con cui, nel 1978, veniva varata la riforma sanitaria, aveva disposto la chiusura degli istituti manicomiali e la riorganizzazione dei servizi psichiatrici. Qualcuno degli internati tornò a casa, per la maggioranza iniziò il percorso di trasferimento in appartamenti assistiti e in comunità terapeutiche a diverso grado di protezione, con obiettivi di cura e riabilitazione (questi ultimi spesso disattesi). Lo svuotamento delle strutture manicomiali procedeva con lentezza, ancora sul finire del secolo scorso non era stato completato.

Rimanevano internati gruppi di pazienti giudicati non integrabili nel contesto sociale, non riabilitabili, non recuperabili… avanzi…scarti…RESIDUI… 

Solo negli anni ’90 una delibera della Regione Lombardia intimava la chiusura definitiva degli istituti ancora funzionanti e imponeva l’obbligo di trovare una collocazione ai loro ultimi abitatori.

Sono stato personalmente coinvolto in questa operazione in quanto incaricato di procedere, con la mia équipe, allo svuotamento del San Martino di Como, che ospitava una trentina di pazienti (una vera avventura, già descritta dettagliatamente su queste pagine) e del Paolo Pini di Milano, con circa 200 ospiti.

Le prime resistenze le ho trovate nel personale sanitario, schierato a difesa dello status quo, le cui paure andavano a saldarsi con l’ansia dei familiari, preoccupati di fronte a soluzioni alternative alla reclusione. Proponevano la ristrutturazione dei padiglioni e una maggiore cura assistenziale, ma sempre in situazione di separatezza dal contesto sociale e di custodia. Tutti d’accordo: facciamoli vivere meglio, ma sempre lì, nel recinto, sottratti alla vista, in un mondo a parte. Basta con sbarre e legature, ma che ci sia ameno la cintura protettiva del parco. Due comunità vennero effettivamente collocate in padiglioni interni al Pini, ma io e i miei collaboratori riuscimmo ad allestirne altre due al di fuori delle mura manicomiali, inserite in quartieri centrali di Milano.

In questa operazione la prima difficoltà fu quella di convertire il personale sanitario a un nuovo modello assistenziale e riabilitativo, che non trasferisse all’esterno il tipo di intervento interno all’istituto manicomiale. La scelta vincente si rivelò quella di collocare le comunità terapeutiche in appartamenti di condominii residenziali, occupati da famiglie e uffici, a stretto contatto, pertanto, con i supposti “normali”.

I risultati ottenuti hanno sfatato il pregiudizio secondo il quale i pazienti psichiatrici internati in manicomio non potessero vivere tra gli umani, ma richiedessero un luogo di dimora appartato, un recinto, che proteggesse e rassicurasse tanto loro che quelli che abitano il mondo di fuori. È la logica del ghetto, che si ripropone oggi con i flussi migratori: chi sta nel ghetto rafforza la sua identità a contatto con i propri simili, ma non si evolve, non si integra. Le analogie di linguaggio svelano che un “diverso” da cui tutelarsi cambia solo di nome. I “residui” variano, ma qualcuno sempre ce n’è.

Psicologo e psicoterapeuta. Fondatore e responsabile scientifico di Fondazione Lighea Onlus.

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