Attualità

Da dove viene il risentimento?

Da un recente episodio della cronaca politica una riflessione su quella che è una “intossicazione dell’anima”. A cui l’uomo reagisce con la paura di essere lasciato indietro e, spesso, col vittimismo

Scrivere di un politico nostrano che si è fatto saltare la mosca al naso per un pettegolezzo, secondo il quale X avrebbe detto a Y che Z… risulterebbe ridondante se non stucchevole dopo che la grancassa mediatica non ne avesse già ampiamente demoltiplicato l’inutile risonanza. Tuttavia, la trista questione fa riflettere su uno dei moventi più profondi del nostro agire e sulle sue possibili ricadute sui destini della collettività, quando a interpretarli sono uomini che ricoprono ruoli di responsabilità nella gestione della cosa pubblica. Colpisce infatti quella reattività incontrollata che ci invita a riconsiderare il pensiero di quei grandi dell’Otto e del Novecento che studiavano l’umano agire in una prospettiva di ampia continuità tra il profondo e il politico.

All’inizio del secolo scorso il filosofo tedesco Max Scheler aveva studiato quello che a suo dire era l’affetto dominante nel suo tempo: il risentimento. Il grande fenomenologo lo definiva come una vera e propria “intossicazione dell’anima” che affligge l’uomo contemporaneo (allora come oggi) in preda alla paura di perdere status e dignità, travolto da mutamenti vorticosi cui reagisce con la paura di essere lasciato indietro e la tentazione del vittimismo.

È il comportamento di chi vive una pulsione mimetica nei confronti di un altro che percepisce come superiore, sprofondando nell’angosciosa consapevolezza del proprio essere superfluo a dispetto delle proprie fantasie di emancipazione. 

Il risentimento, secondo Max Scheler, nulla ha a che vedere con quelle emozioni negative come la vendetta, l’odio, la cattiveria, la malignità, l’invidia e la perfidia che possono trovare esiti diversi e concreti nell’aggressione fisica, nell’insulto, nel danneggiamento. Perché il risentimento insorga infatti è decisiva la rimozione, il mancato sfogo di quelle emozioni negative. La sua genesi implica la repressione dell’odio, dell’ostilità, dell’aggressività attraverso una disciplina ferrea – quasi un’ascesi – a frenare, differire o impedire il loro sfogo fino a rovesciarne il valore per trasformarle in emozioni positive. 

Lo stesso Nietzsche aveva parlato di una falsificazione delle tavole del valore ad opera del risentimento. Condizione sine qua non per l’insorgere del risentimento è dunque l’incapacità del soggetto di tradurre sentimenti negativi in atto. Esso risponde a esperienze d’impotenza, di mancanza di motivazioni precise, di denigrazione del valore di persone e cose, di compiacimento per il male altrui, condannato a interpretare, secondo la suggestiva idea di Vladimir Jankélévitch, la perniciosa volontà di potenza dei deboli impigliati in un’ansia perenne di risarcimento e di restituzione. È da lì che deriva il morso avvelenato che riduce l’ambito del risentimento al destino dei servi e dei dominati. 

Ma la schiera dei servi e dei dominati nel corso di un secolo e mezzo si è allargata a dismisura e l’uomo del sottosuolo di dostojevskiana memoria è assurto a paradigma di una modernità che non smette di essere contemporanea. La domanda lecita è: fino a che punto siamo disposti ad accettare che a risentirsi e a reagire al nulla con atti pericolosamente pregiudizievoli del pubblico bene siano, come noi, uomini del sottosuolo?

Francesista e professoressa ordinaria di Letteratura francese dell’ Università Roma Tre "à la retraite". Se avesse uno pseudonimo sarebbe "La moglie di Obelix"

Lascia una risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *