Attualità

Clima e adolescenza, se non parlassimo solo di crisi?

Di consueto riteniamo il clima come quel complesso di condizioni metereologiche che caratterizzano una località o una regione nel corso dell’anno e il cambiamento di quelle condizioni come crisi climatica. La scrittrice Rebecca Solnit dà una prospettiva differente su come affrontare tale modificazione, traducibile metaforicamente anche per l’adolescenza.

“Storie migliori per il clima”. Così la scrittrice e saggista statunitense, intitola il suo articolo che compare in una sezione della rivista Internazionale. Anche lei, come tanti ultimamente, cerca di porre l’attenzione alla questione del cambiamento climatico e lo fa con un linguaggio chiaro e diretto che affascina. Scrive attraverso frasi simboliche, adottando spesso una prospettiva antropologica che trovo molto interessante, forse per deformazione professionale.

È singolare infatti osservare come l’autrice, anche solo attraverso il titolo, sia riuscita a compiere un’inversione soggetto-oggetto: ciò che spesso è alla nostra attenzione come soggetto incontrollabile, ovvero il clima, che è sviscerato nei suoi aspetti scientifici soprattutto perché provoca nelle nostre vite variabilmente serenità e distruzione, diventa oggetto di interesse in trasformazione. Una trasformazione che non avviene tramite le azioni individuali di una persona, tamponando qua e là con l’acquisto di una macchina elettrica, ma attraverso la memoria collettiva di un’intera popolazione che da testimone e attore parla del suo cambiamento nel tempo.

Sperando che la dottoressa Solnit non si offenda, ciò che scrive lo si può metaforicamente calare anche nel contesto dell’adolescenza. Consideriamo uno stravolgimento di tema; l’articolo diventerebbe il seguente: “Storie migliori per l’adolescenza”.

E dunque, adottando nuovamente la sua prospettiva antropologica, l’adolescenza non è più il soggetto irrequieto e incompreso di cui siamo in balia, da governare individualmente con la strategia migliore ma è il tema delle storie di una memoria collettiva che l’ha vissuta, la rivive tramite l’altro e la racconta, ascoltandola.

Storie però che non siano narrazioni intrise di sventura (“andrà sempre peggio”) o resoconti apocalittici (“il riscaldamento globale è inarrestabile, l’adolescente ci farà estinguere”), come se nell’immaginario comune il ragazzo sia alla stregua del clima, ma narrazioni migliori che si allontanino dalle abitudini mentali fisse per favorire il cambiamento e condurlo e che si avvicinino ad un racconto intergenerazionale facilitato da una memoria collettiva.

Se il miglior antidoto è raccontare storie migliori, dove trovarle e come ricominciare a raccontarle?

Vorrei ora fare un esempio più concreto. All’interno di una comunità psichiatrica, dove spesso c’è un elevato turn-over di operatori, le narrazioni catastrofiche riguardanti pazienti psicotici e ancor di più oggi adolescenti borderline sono all’ordine del giorno. Però è di buona prassi che il supervisore esterno ci imponga di fermarci e riscoprire, giorno dopo giorno, sia narrazioni che abbiano uno sguardo nuovo sia narrazioni che provengono da una memoria orale e scritta di operatori e pazienti che hanno già partecipato al cambiamento del proprio “clima” interno ed esterno. Allora forse è tutto lì: per trovare queste fatidiche storie migliori, bisogna fermarsi a pensarle.

Educatore professionale e Arteterapeuta in formazione. Mi occupo principalmente di adulti con disagio psichico e adolescenti.

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