Forse Peter Pan aveva ragione. Crescere fa schifo. Ti guardi allo specchio e non ti piaci; i tuoi genitori ti chiedono di fare sempre di più anche quando pensi di aver dato il massimo; i professori non sempre ti capiscono e i tuoi compagni talvolta sono così strani che persino parlare con loro diventa difficile. Ci sono così tanti cambiamenti che, al solo pensiero, ti si ribalta lo stomaco, ti senti il cuore in gola, le mani ti sudano e tutto si fa nero. Incomprensibile.
Tutto diventa così complesso che parlarne non solo è dura ma sembra un’impresa che neppure il più coraggioso tra i supereroi potrebbe affrontare. Il cervello cerca di trovare delle soluzioni a tutto questo, come cambiare look per adattarsi al proprio gruppo, parlare meno con i propri genitori perché loro proprio non riescono a capire quanto tu sia in difficoltà e vanno in ansia peggiorando tutto, sentire che si deve vomitare da un momento all’altro prima dell’interrogazione.
Eppure, alle elementari non era così. I compiti erano tutto sommato divertenti, le maestre delle mamme bis, i compagni solo degli amici perfetti di giochi immaginari senza fine.
Però è così. Il voto diventa un valore di quanto sono intelligente come persona, capace come studente, bravo come figlio. L’interrogazione che va male significa che non sono capace. Il mio compagno che ci riesce avrà sicuramente qualcosa in più di me. Ecco che ricomincia questo ciclo infinito per cui l’unico pensiero che arriva è “Tanto non ce la farai mai”. Non riuscirai a essere avvocato come papà, medico come mamma, insegnante come la zia; non riuscirai a conoscere tutte le scoperte scientifiche come il nonno, né tutte le curiosità che hanno fatto prendere 10 al tuo compagno di banco.
Forse, quello che manca in tutto questo è che a quel numero la società in cui viviamo ha dato troppo peso. E tu con lei. Manca la questione fondamentale: quello è solo un numero mentre tu sei una persona.
Forse, quello che qualcuno dovrebbe aiutarmi a capire, per avere meno paura, è che quello che si attiva nell’aspettativa di quel numero è un sistema che nel nostro cervello esiste da millenni, quando ancora eravamo più animali che altro. È quell’istinto che, quando sei a casa da solo, ti fa sentire tutti i rumori possibili, che quando cammini per strada per tornare a casa ti fa stare attento alle macchine. Quel brivido lungo la schiena che ti fa dire che forse qualcosa attorno a te non ha senso. Si chiama attacco-fuga. La paura di non essere abbastanza lo attiva, e come animali che scappano da un predatore le nostre pupille si dilatano (per vedere meglio), il nostro respiro accelera (per correre più forte), il nostro cuore e i nostri muscoli si contraggono (per combattere e scappare il prima possibile).
Forse, così è più facile comprendere che non è altro che qualcosa di esterno ma che per noi diventa il coccodrillo di Capitan Uncino, il ticchettio del suo orologio che non ci fa più ragionare. Perché sì, anche Capitan Uncino ha l’ansia, come il leone che la mattina spera di trovare un animale più debole per poter sopravvivere. Però è importante che tutto questo ci sia, che ci spinga così a migliorare sempre, non per paura di avere chissà quale etichetta addosso ma per continuare a scoprire cose nuove, su di noi e non solo. Per capire su chi fare davvero affidamento e non restare da soli inventandoci sempre nuove soluzioni per arrivare almeno a escludere chi noi non siamo mantenendoci sempre un po’ bambini; così che un voto, un compito, una litigata restino solo in quel momento, senza impedirci di riprendere a sognare verso il nostro futuro.
Peter Pan aveva ragione: crescere fa schifo, ma basta ricordarsi di come volare all’isola che non c’è.