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Questo ragazzo fragile e bruciato alla fine mi fa tenerezza

Fabrizio Corona mi fa venire in mente quei miei pazienti depauperati di un ingaggio educativo

Oltre al Corona virus, un altro Corona in questi giorni ha fatto parlare di sé. Fabrizio Corona. Un nome che di solito collego a un fastidio, a un’alzata di occhi, a un senso di snobismo

culturale da cui nessuno di noi è completamente immune.
Però, sarà il lockdown, il bisogno di coltivare pensieri e sentimenti nuovi… sta volta ho sentito il bisogno di soffermarmi. Di capire meglio. Di connettermi con questo personaggio che più lontano da me non potrei sentire.
Fabrizio Corona ha postato un video sul suo profilo Instagram con il volto pieno di sangue, dovuto ad atti di autolesionismo costatigli 14 punti di sutura, in seguito al provvedimento che dispone il suo rientro in carcere per via della violazione degli arresti domiciliari predisposti nel 2019 per patologia psichiatrica. Successivamente ai tagli su braccia e volto, avrebbe aggredito degli agenti e rotto un vetro dell’ambulanza che lo stava trasportando.
Fabrizio è stato ricoverato alla Psichiatria del Niguarda, dove sta proseguendo con atti autolesivi, sciopero della fame e della sete. Le reazioni pubbliche si sono divise tra la condanna aprioristica a un personaggio che non è certo un exemplum virtutis e qualche riflessione un po’ più complessa sul bisogno che persone così vengano curate, mettendo in luce le falle enormi del nostro sistema carcerario.

Nel corso di una trasmissione televisiva, la madre ha dichiarato una storia personale e familiare di patologie psichiatriche, assumendosi la responsabilità delle problematiche del figlio: un intervento con modalità istrioniche ma che certamente ha squarciato il velo attorno

al personaggio Corona, da Re dei paparazzi a “narcisista, malato, fuori come un balcone”, secondo la narrazione materna.
Questo appello disperato mi arriva con una fitta allo stomaco, non tanto per i contenuti, ma perché non mi sono chiari i confini tra il poter dichiarare, sdoganare la malattia mentale e il paparazzarla strumentalmente: come in una pena del contrappasso, in cui il lato più fragile di una persona, accanita a proteggerlo e nasconderlo per una vita, nei modi disperati e disfunzionali con cui trinceriamo a volte le nostre parti più vulnerabili, viene a un certo punto esibito e dato in pasto allo stesso ingranaggio che ha maciullato l’esistenza stessa della persona in cui abita.

Da professionista della salute mentale, vorrei riuscire in un pensiero che sia capace di cucire insieme mente e cuore, nell’atto di andare un po’ oltre apparenze polarizzate su estremi facili

da condannare.

Dietro l’antipatia, mi chiedo quanti di noi si sentirebbero di ammettere di aver segretamente invidiato il Fabrizio Corona di turno, col suo surfare sfacciatamente sopra le regole, bello e dannato di un mondo di vip, notorietà e soldi facili, veicolo di una curiosità malata e banale con cui una parte voyeuristica della nostra società ogni tanto collude morbosamente.

Quanti di noi, crogiolandosi un po’ nel grigio di una vita secondo le regole, eroi del dovere quotidiano, coltivano segretamente un sogno proibito di vite sregolate, luccicanti, trasgressive.

“Là nell’abisso.. è tutto uno spasso..” cantava Capossela.

Devo aprire le porte a

questa parte di me per sintonizzarmi con i tanti Fabrizio Corona che oscillano dalle stelle alle stalle della nostra società.

Da qui, mi vengono in mente i miei pazienti che sono stati “spoilt children”, nella duplice accezione del termine: come sottolinea lo psicoanalista Franco Borgogno, “spoilt” in inglese significa viziato ma anche deprivato. Bambini viziati ma depauperati di un ingaggio educativo che li renda capaci di adattarsi alle regole della società, di tollerare le frustrazioni: e li vedo questi bambini, nella stanza di psicoterapia (quando ci arrivano), non tollerano che la seduta duri 45 minuti, non tollerano che un gioco sia rovinato da un graffietto, che manchi il verde acqua nella scatola dei pastelli, perché devono avere accessori perfetti per sentirsi funzionanti,

pena il contatto intollerabile con un senso di inadeguatezza che li fa crollare. E vedo adolescenti che si sentono perennemente perseguitati dalle regole, per cui le norme sociali sono sempre contro di loro, inabili a identificarsi empaticamente in un gruppo, incapaci, soprattutto in questo periodo, di attivare risorse dentro di sé perché, nella bidimensionalità del loro mondo interiore, dipendono dal come le-cose-devono-andare-per-essere-adolescenti- cometuttiglialtri.
Non hanno fiducia nel poter riprendere al volo i treni persi, gli adulti che vogliono aiutarli finiscono per essere adulti che vogliono piegarli e uniformarli, gli amici finiscono sempre per mostrare quella imperfezione che limita le loro possibilità.
E poi vedo un Fabrizio Corona, persona che ha dovuto costruire un personaggio, magari non per scelta consapevole, ma perché la persona-Fabrizio sarebbe collassata nel vuoto senza il personaggio-Corona.

Mi viene un inusuale afflato di tenerezza per quest’uomo, che colgo nella sua condannata umanità: nella sua fragilità ora mi sembra di sintonizzare una parte di me più gentile di quella che lo giudica, e con questa parte gli auguro di trovare possibilità di vita e di pace.

*C. Baudelaire, Heautontimoroumenos, I fiori dePsicol

Psicologa psicoterapeuta, si occupa di età evolutiva, genitorialità, trattamento dei traumi e psico oncologia.

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